Del Linguaggio
- Marcello Moscatelli
- 7 set 2020
- Tempo di lettura: 2 min
Di ciò di cui non si può parlare occorre tacere. Dice Wttengstein, è noto.
Ma aggiunge che ciò di cui non si può parlare è esattamente ciò che vi è di esistenzialmente più importante.
Dunque, concludo io, non si può non parlarne.
Siamo stretti tra una necessità e una impossibilità.
Dobbiamo parlare di ciò che non può essere detto.
Non possiamo farne a meno.
Ed ecco che il linguaggio non è già più quella cosa trasparente che gli analitici sostengono.
O parliamo di cose esistenzialmente irrilevanti, è lì possiamo essere chiarissimi, o parliamo di cose esistenzialmente fondamentali, ma ciò è necessario e impossibile al tempo stesso.
Siamo in un circolo della necessità/impossibilità, si tratta, come sempre, di starci nella maniera giusta.
Ed ecco che nel tentativo di parlare della propria esistenza e dell'esistenza del mondo e di Dio e di quant'altro si voglia, ciascuno genera il suo mondo personale.
Ma dopo averlo generato deve intrecciarlo col mondo degli altri.
E qui la comunicazione si fa problematica.
Il mio mondo non è il tuo, come possiamo allora intenderci?
Ebbene se ricorriamo al linguaggio l'intesa è difficilissima.
La soluzione sta dentro alla comunicazione ma fuori dal linguaggio.
Sta nel'Empatia, nella prossemica, nella semantica del non verbale, insomma nel Segno.
Noi ci capiamo attraverso il linguaggio ma questa possibilità ha il suo fondamento, la sua condizione di possibilità, in ciò che non è linguistico.
Ed ecco che il linguaggio funziona non perché è un linguaggio ma perché, appunto, è un Segno.
E un segno non è solo verbale, orale o scritto che sia.
Ma una pittura rupestre è un segno, un abbraccio è un segno, uno sguardo è un segno e così via.
Il linguaggio comunica perché, contro le apparenze, continua a contenere i bisonti di Altamura.
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